di Patrizia Gradito e Nicola Viceconti
“Dovendo bere vino, fallo con i sapienti,
o con una bella dal volto di luna;
dovendo bere vino fallo con dovizia,
bevine poco, ogni tanto ed in segreto”.
Così raccomandava Omar Khayyam, (1048 circa–1131), grande scienziato persiano, noto in Occidente soprattutto per essere l’autore del “Trattato di Algebra”, di cui solo sul finire del 1800, se ne scopriranno alcune splendide poesie. Fu nel 1859, infatti, che molte delle sue quartine furono tradotte in inglese da Edward Fitzgerald, permettendo così, ai giorni nostri, di apprezzare i suoi versi, per esempio, nelle composizioni di Francesco Guccini, Vinicio Capossela e Fabrizio de André.
I temi che predilige Khayyam spaziano dalla caducità della vita, alla morte fino a rivelare la vanità e i limiti della ragione umana. È portavoce dell’Islam medievale nell’età dell’oro, quando fioriva la ricerca scientifica e artistica, in una società tollerante, multietnica e multireligiosa, tramontata più tardi con la distruzione di Baghdad nel 1258 che ha gettato l’Islam in un periodo buio. Nella poesia sufi i richiami alle gioie del vino e dell’amore terrestre sono spesso allegorie d’ineffabili verità divine. Insieme a Rumi, fondatore dell’Ordine dei Dervisci danzanti, lo scienziato persiano è considerato anche un maestro sufi.
“Fin quando sprecherai la tua vita adorando te stesso?
E ad affannarti a correre dietro all’Essere e al Nulla?
Bevi vino, ché una vita che ha in fondo solo la Morte
meglio è che passi nel sonno, meglio è che passi in ebbrezza.
Se bevo non è per sregolatezza, o sprezzo per la morale o la religione,
ma per respirare una boccata d’aria fuori da me stesso”.
Innegabilmente, il vino offre una poderosa simbologia: richiama la passione, il sacrificio, il rito, la gioia di vivere, la convivialità e i vincoli e può avere sfumature tanto prosaiche quanto mistiche. La tradizione ellenica fa risalire l’origine della Vite alla morte di Ampelo, un giovane di cui il dio Dioniso s’innamora perdutamente al punto da esserne ossessionato e divorato dalla paura della perdita. Delle Moire – figure mitologiche responsabili del destino – è Atropo a decidere di restituire la vita ad Ampelo, tramutandolo in tralcio di vite. Le lacrime di Dioniso fuse con il sangue del suo amato si tramutano in vino, un nettare dolcissimo capace di confondere la memoria, sovvertirla e riplasmarla. Ampelo diviene la Vite che porta agli uomini l’ebbrezza e il vino che profonde la gioia di vivere. Il vino si consolida come simbolo di Vita, il mezzo che permette all’essere umano di sconfiggere la nostalgia e la paura della morte.
1) La forma della quartina fu usata spesso nella storia della letteratura persiana per esprimere emozioni interiori di carattere soprattutto mistico ma Khayyam la impreziosisce rendendola una forma politematica, anche ironica e umoristica.
2) Mito di Dioniso: Dioniso in preda all’apprensione, raccomanda ad Ampelo di evitare i pericoli. Un giorno Ate, personificazione divina della malizia e dell’errore, su ordine di Era, convince Ampelo ad accarezzare un toro, a giocarci e cavalcarlo. Ate fa pungere il toro da un tafano. Il toro disarciona Ampelo che finisce incornato a morte dall’animale. Dioniso è distrutto piange e conosce la sofferenza. Eros tenta di consolarlo invitandolo a innamorarsi di nuovo e narrandogli storie di morte e rinascita, ma non riesce a trovare nessun rimedio efficace.
La bevanda ha attraversato i millenni ed è entrata a far parte delle culture di molti popoli, esprimendo simbologie e significati diversi e spesso sovrapponibili. Il vino come simbolo della convivialità, da consumare a sugello di un evento felice o al conseguimento di un successo individuale e collettivo o come compagno di viaggio di persone che in esso si sono rifugiati cercando la via di fuga, l’oblio, non calcolando gli effetti dell’abuso e finendone sopraffatti è presente nelle creazioni di tutti i tempi, nella letteratura come nell’arte plastica e figurativa.
Esplorando la nostra produzione letteraria ci siamo accorti che il vino compare più volte tra le pagine dei nostri scritti. Nel romanzo “Cumparsita” (Rapsodia edizioni, 2020), per esempio, è Raul che dopo una discussione con don Mimì sulle mutazioni culturali del tango, offre un bicchiere di vino al suo compare per ristabilire l’armonia e consolidare la loro amicizia o, quando si recava in visita all’ospedale e contravvenendo ai regolamenti, gli consegnava una bottiglia del suo vino preferito.
«Ecco il vino che mi hai chiesto, dove lo metto?»
«Bravo ragazzo! Nascondilo nell’armadio sotto l’asciugamano.
Hai portato il Fincado?»
«Sì. Fincado del 2005».
Sembravamo due contrabbandieri nell’atto della consegna della merce, oggetto di quell’illecito traffico che scherzosamente avevamo battezzato la “solita commissione”.
La consegna avveniva una volta a settimana. Al telefono dicevo a Raúl quale vino prendere in cantina, e lui me lo recapitava occupandosi di riportare indietro la bottiglia vuota della settimana precedente. Me lo facevo bastare per quelle fumate clandestine davanti alla finestra, tra una visita e l’altra.