di Francesco Rozzo
In un clima costernato da conflitti, tra crisi economiche e prospettive di futuro sempre più tetre e precarie, in Italia, da settimane, il dibattito dell’opinione pubblica è letteralmente concentrato sul tema di un eventuale dirompente e violenta censura dei dirigenti del servizio pubblico ai danni di giornalisti e addetti ai lavori. Gli elementi per avallare questa tesi, da un lato, possono anche esserci; il nostro paese scala di cinque posizioni nella classifica relativa alla libertà di stampa. Lo scrittore Antonio Scurati bloccato per la sua ospitata sul 25 Aprile e, in ultimo – legato a questo avvenimento – la conduttrice Serena Bortone in balia del rischio di un provvedimento disciplinare per la sua condotta. Episodi che hanno generato, in molti, sentimenti di indignazione e protesta. È partito così il tiro al bersaglio, la rivolta contro “telemeloni”. Comunicati, scioperi e contestazioni. Gli ingredienti perfetti per un clima da rivoluzione. La mobilitazione pare essersi avviata in Rai nel silenzio delle istituzioni, che inermi sembrano proprio godersi lo spettacolo. Già, la rappresentazione di ciò a cui stiamo assistendo è pompata e ingigantita dal fatto che molti intravedono in questo esecutivo lo spettro di un possibile, ma fittizio, eventuale ritorno di un fascismo rielaborato in chiave moderna, ipotesi totalmente scongiurabile.
Ma la verità è lampante, la Rai, in realtà, non si è mai potuta considerare un vero servizio pubblico, si è sempre adeguata ai governi, alle correnti e ai partiti. La storia c’è l’ho ha insegnato. Il cuore del problema è molto più profondo, occorrerebbe una rimodulazione e rifondazione dell’azienda oramai obsoleta e priva di nuovi contenuti.
Tutto questo clamore odierno non porterà a nulla, solo chiacchiere e acqua al mulino dell’attuale governo che farà di quest’opera il pretesto per tralignare dai veri problemi del Paese