di Pino Tedeschi
L’altro giorno sono entrato in una fornita e accogliente “Enoteca con cucina” in prossimità di… (meglio non dirlo, per non allontanare i ciampinesi dalla nostra città). Lì, nel grande piazzale adibito a parcheggio, tra alcune grosse botti in bella mostra, aleggia una scritta: “se il vino non lo reggi l’uva magnatela spremuta a chicchi”. Ho bussato alla grande porta a vetri del locale per curiosare: Tik Tok (non c’era bisogno di richiamare il social, ma ormai l’ho fatto). Tic toc, e sono entrato: varie centinaia di bottiglie esposte nelle vetrine e sulle mensole mostravano eleganza nell’arredo. Nella grande sala, alcuni tizi piluccavano tenendo un bicchiere in mano: mezzo pieno o mezzo vuoto. – In un angolo, intorno ad un tavolo apparecchiato, c’erano alcuni giovanotti che ascoltavano un signore in giacchino che parlava, per l’appunto, di alcune bottiglie di vino sistemate coi loro bicchieri. Accennava al Vinitaly sbarcato negli USA; di un calo di produzione nelle zone vocate dovuto al cambiamento del clima; di cantine maggiormente conosciute dagli esperti del settore; delle varie pratiche di cantina, di vini naturali e loro produzioni. E discettava con particolare riferimento al ritorno del vino di una volta, con la sua torbidezza in bottiglia e l’odore caratteristico: una di queste era sul tavolo in bella evidenza.
Proprio a questo riguardo, dicevo tra me e me: la globalizzazione ha sparpagliato le carte in tavola. Abbiamo passato gli ultimi 30 anni a sciorinare e celebrare le virtù culinarie dei nostri nettari; a discutere di abbinamenti del gusto: barolo-brasato, amarone-tagliata, rosato o bianco “della cantina tal dei tali” per il pesce, insistendo sulla simbiosi tra vino e cibo: espressioni della cultura territoriale. E guarda un po’ che mi tocca sentire: il ritorno del vino al modo del contadino di una volta. – Incuriosito e quasi per bisogno, mi sono presentato al tavolo come un ex socio Slow Food e Sommelier desueto. Sono stato accolto dal gestore del locale ed invitato ad intervenire sull’argomento: un tempo la questione del vino che sapeva di legno era garanzia di invecchiamento e qualità. Mentre, oggi, la situazione si è ribaltata; è in atto la corsa a produzioni sempre più leggere che, in qualche caso danno buoni risultati, in altri casi snaturano l’immagine che avevamo di una certa tipologia di vino.
Insomma, mi sono ritrovato “apparecchiato” insieme agli occupanti del tavolo, pronto all’assaggio di un vino frizzantino, torbido alla vista, dagli esiti quasi disastrosi: con difetti eloquenti sia nei profumi di “feccino” che si percepiva al primo naso, sia nel gusto e retrogusto. Dal gestore mi sono sentito dire che c’è un ripensamento da parte di alcune cantine. Meno barrique, quindi, in favore di contenitori di cemento (ricordando gli antichi recipienti usati nei Castelli Romani). Ovvero, ci trovavamo di fronte ad un vino messo in bottiglia, e reso frizzantino per sostituire la birra?! – Va da sé che i vini bianchi siano percepiti come più leggeri e meno impegnativi e che riescano a mettere tutti d’accordo. Un Barolo, un Amarone della Valpolicella, un Brunello di Montalcino, un ottimo Taurasi o un rosso di Troia – giusto citare anche il Sud – hanno bisogno di essere aperti persino un paio d’ore prima per ossigenarsi, e non sempre si vuole attendere. I giovani, secondo le statistiche, bevono meno vino strutturato non apprezzandone il valore culturale: si indirizzano verso la birra e gli spritz.
La storia del vino non filtrato, mi fa venire in mente il vino che faceva mio nonno con l’uva della sua vigna (filari di fiano tenuti ad alberello e qualche vite di quella nera). Ancora mi vedo con gli stivaletti a pigiare l’uva con il nonno che mi teneva per mano, dentro un vascone di pietra, posto su una base di tufo, col beccuccio da dove usciva il mosto. Poi, mio padre e gli zii torchiavano le vinacce. Tutto il mosto si raccoglieva in una conca di rame per versarlo nei capasoni: grosse anfore pugliesi, disposti nel magazzino, dove i lieviti – questo l’ho saputo dopo – venivano a contatto del liquido per farlo diventare vino. Quel vino nel giorno di San Martino (quando il mosto diventa vino), dal colore ambrato, spillato dalla giara (il capasone) non era mai limpido. Sul finire di giugno, poi, diventava “spunti-cello” (spuntato nel gusto) con un maggiore sbilanciamento in piena estate verso l’acido acetico. Il vino con la gassosa era il suo rimedio.
Conclusioni: “la vite è una ruota che gira?”. – Oggi la convivialità equivale ad un incontro per l’aperitivo o l’apericena; basta fare un giro per i Pub e alcuni Bar di Ciampino: si comincia con una bollicina per poi proseguire con un bianco servito freddo. Pesano le giornate sempre più calde, come il nostro inverno da poco trascorso. – Certo è che ci sono campagne di sensibilizzazioni sui rischi per la salute legati al consumo di alcol. Ormai sentiamo dire che bisogna moderarsi anche col vino (senza superare il quinto bicchiere). – Va di moda il vino più facile da accostare – anche in barrique – ma con macerazioni più brevi e più affinamento in vetro. Una sfida per le aziende più classiche, quelle più legate alle proprie tradizioni. Insomma, i vini bianchi e rosati sono più freschi e facili, ma anche se il re dei vini ha perso il trono (il barolo), noi siamo sempre convinti che un buon rosso vale un discorso più approfondito. Perché il vino si racconta, insieme alle persone e al suo territorio.