di Anna Belli
La pancetta nell’amatriciana? Eresia! Il ketchup sulla pasta? Scomunica!
Sì, per quanto riguarda il ketchup sulla pasta, sono assolutamente d’accordo.
E anche per quanto riguarda l’amatriciana, che ad Amatrice fanno col guanciale, che dunque è la scelta corretta.
Ma non sempre le cose sono così chiare, per quanto riguarda la tradizione. Prendiamo il concetto di “al dente”. Avendo girato più di una volta la boa dei 20 anni, sono in grado di testimoniare come si è arrivati all’attuale concetto di “pasta al dente”.
Fino a metà degli anni ’70, ogni tanto sentivo dire, qui al Centro, che a Nord tendevano a scuocere la pasta, mentre a Sud la facevano quasi cruda. Almeno questa era l’impressione di noi italiani centrali. Ricordo che il contesto storico era quello ancora della grande migrazione interna da Sud a Nord. Meridionali e settentrionali si ritrovarono ad essere colleghi di lavoro e vicini di casa, il che dette modo anche di conoscere le usanze alimentari gli uni degli altri.
Poi arrivarono gli anni ’80. I sacrifici dei decenni precedenti avevano dato i loro risultati; anche il contesto politico era cambiato e c’erano la voglia e il denaro per godersi un po’ più la vita. Dopotutto, l’Italia era la quinta potenza al mondo. Gli italiani, tradizionalmente amanti del cibo, ebbero la possibilità, in gran numero, di occuparsi anche degli aspetti culturali e storici del cibo. Ci si posero con maggiore frequenza domande su come erano prodotti gli ingredienti, se il cibo, in tutte le sue fasi, corrispondesse a un ideale dato etc. Il rafforzamento dell’identità italiana passò attraverso il rapporto con il cibo, visto come legame con il passato e come mezzo di affermazione dell’identità, anche dell’identità nazionale. Questo riguardò, come è ovvio, anche la pasta.
Fu negli anni ’80 che qualcuno ebbe l’idea di cominciare a stampare sui pacchi di pasta i tempi di cottura. Ho fatto delle ricerche, ma non sono riuscita a trovare il nome di chi ci ha pensato, che comunque meriterebbe di figurare accanto a quelli di Pellegrino Artusi e di Ada Boni: se il primo ci ha dato un manuale per unire le varie tradizioni gastronomiche in una cucina “nazionale” e se la seconda ha insegnato a tutti gli italiani a usare vari strumenti, soprattutto la bilancia, e a coniugare cucina, economia domestica e bon ton, l’uomo o la donna che ha avuto l’idea dei tempi di cottura sui pacchi di pasta ha fornito una base comune per definire il concetto, non sempre facile da spiegare, di “al dente”. Oggi, ovunque si vada mangi pasta, non ci sono più differenze macroscopiche nel risultato della cottura.
Quello che è accaduto alla pasta al dente è un esempio di invenzione della tradizione. Oggi molti sono convinti che la pasta sia stata sempre cotta al dente, fin da secoli fa. In realtà non sono neanche 50 anni che ciò avviene.
Meccanismi simili si mettono in funzione, molto spesso, quando si tratta di piatti tradizionali. Se fate mente locale alle discussioni, di solito animate, che si sviluppano tra amici, tra parenti, attorno a una tavola durante un banchetto o dopo l’ammazzacaffè del pranzo di una delle feste grandi, vi renderete conto che “la” ricetta di un piatto tradizionale, alla fine, con tutto l’andirivieni di ingredienti assolutamente necessari o assolutamente da evitare (“cipolla sì”, cipolla no”, mi raccomando non usate l’aglio / la pancetta”), è il compromesso tra molte varianti locali, ognuna delle quali soggetta a varianti familiari: “Da noi si fa così, ma nel paese accanto fanno cosà”; “a fare così mi ha insegnato mia madre / mia suocera”.
Il tutto in un turbinio di pareri e di difese accorate della tradizione (che sia più o meno giovane, più o meno inventata). E questo è il vero sport nazionale degli italiani e il vero collante che ci è rimasto.
Prosit! E buon pro vi faccia.