di Patrizia Gradito e Nicola Viceconti
La società contemporanea, caratterizzata da una complessità sempre più evidente, richiede l’adozione di un orizzonte ampio, cosmopolita, in grado di superare vecchie categorizzazioni e infrangere i pregiudizi. La sfida che ne consegue ci spinge ad addestrarci a una nuova lettura dei fenomeni sociali e, in particolare, di quelli discriminatori per intercettare le ingiustizie sistemiche. In tal modo, il contrasto all’abilismo e all’etnocentrismo si sostanzia in un avanzamento nelle relazioni fra esseri umani ed etnie, per consolidare la cultura del rispetto e abbattere la disumanizzazione dei muri. Un obiettivo che, in primo luogo, può essere raggiunto mediante un uso attento delle parole.
Alcuni giorni fa, viaggiando in treno, abbiamo assistito a uno scambio tra una coppia che dibatteva su quale fosse il titolo idoneo da adottare per rivolgersi al proprio legale. La ragazza propendeva per l’appellativo di “Avvocata” mentre lui non era d’accordo. Ci è parso interessante ascoltare le motivazioni addotte da quest’ultimo che sottolineava come il titolo di “Avvocata” suonasse male per la lingua italiana. La risposta della ragazza che ha messo fine alla breve conversazione si è concentrata su altri esempi di professioni esercitate da donne e ormai largamente accettati, come quella di “psicologa”.
Abbiamo approfondito la questione e scoperto che il sostantivo maschile “avvocato” dispone di due forme femminili: “avvocatessa” e “avvocata”. La prima appartiene a un uso più tradizionale, “avvocata”, invece, è una forma regolare femminile, perfettamente legittima nella grammatica italiana, utilizzata da chi predilige un uso non discriminatorio. (fonte: Cecilia Robustelli, esperta linguista della Treccani).
Al di là della questione linguistica rappresentata nell’esempio, quello che pare di nostro interesse è l’aspetto socioculturale. Considerato il crescente ingresso delle donne in settori professionali e istituzionali storicamente ricoperti da figure maschili, si è reso sempre più necessario il ricorso ad un lessico che la versatilità della lingua italiana ha già acquisito; ci riferiamo a lemmi come sindaca, assessora, architetta, ministra etc. con i quali si sta instaurando sempre più familiarità. Sorvolando ogni interpretazione ideologica, quindi, appare chiaro che i processi linguistici testimoniano determinati cambiamenti storici e di costume, riflettendo la specifica visione del mondo della comunità di appartenenza.
Nel saggio Il sessismo nella lingua italiana, Alma Sabatini sottolinea: «La parola è una materializzazione, un’azione vera e propria (…) l’uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione nel pensiero e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta».
Un esempio in tal senso è quello relativo a Emma Strada, la prima donna in Italia a laurearsi in Ingegneria nel 1908 al Politecnico di Torino. In occasione della sua proclamazione, la commissione discusse per oltre un’ora per decidere quale fosse la giusta denominazione per la neolaureata, tra il titolo di ingegnere o ingegner-essa. Da una verifica nei dizionari è emerso che il corrispettivo della forma femminile esiste – seppure ancora oggi considerato raro – ed è quello di ingegnera.
A chi pensa che, nello scenario attuale, il linguaggio inclusivo sia un mero esercizio retorico e non una priorità, vale la pena ricordare che esso corrisponde a un concreto modo di essere e di agire, nei rapporti con gli altri, fondato sul rispetto di tutte le diversità.